Studio di fase 2 confronta cabazitaxel e ARPI nel mCRPC a prognosi sfavorevole dopo docetaxel

Un recente studio multicentrico di fase 2b, in aperto, ha indagato il trattamento ottimale per i pazienti con carcinoma prostatico metastatico resistente alla castrazione (mCRPC) a prognosi sfavorevole che avevano mostrato progressione dopo chemioterapia con docetaxel. Lo studio ha confrontato la efficacia clinica della chemioterapia con cabazitaxel rispetto agli inibitori della via del recettore degli androgeni (ARPI), in particolare abiraterone più prednisone o enzalutamide, in questa popolazione difficile da trattare. Inoltre, ha esplorato il valore prognostico e predittivo dell’analisi del DNA tumorale circolante (ctDNA) per supportare approcci terapeutici personalizzati.

Un totale di 106 pazienti con mCRPC e caratteristiche prognostiche sfavorevoli sono stati randomizzati a ricevere cabazitaxel (25 mg/m² ogni tre settimane con prednisone giornaliero) oppure un ARPI (1000 mg di abiraterone più prednisone o 160 mg di enzalutamide al giorno). L’endpoint primario dello studio era il tasso di beneficio clinico (CBR) a 12 settimane, mentre gli endpoint secondari includevano la sopravvivenza libera da progressione radiografica (rPFS), la sopravvivenza globale (OS) e la risposta PSA50 (≥50% di riduzione dei livelli di PSA). La caratterizzazione genomica del ctDNA plasmatico è stata eseguita al basale, a 12 settimane e al momento della progressione per indagare biomarcatori associati a prognosi e risposta al trattamento.

Lo studio ha evidenziato nessuna differenza statisticamente significativa nel tasso di beneficio clinico a 12 settimane tra i bracci cabazitaxel e ARPI, con un CBR complessivo del 62,3%. Un follow-up mediano di 30,9 mesi ha mostrato che la sopravvivenza libera da progressione radiografica e la sopravvivenza globale erano simili tra i due gruppi. È interessante notare che il tasso di risposta PSA50 era più alto nel gruppo ARPI (47,2%) rispetto a quello trattato con cabazitaxel (26,9%).

La precedente esposizione agli ARPI, osservata nel 37,7% dei pazienti, è risultata associata a esiti significativamente peggiori quando gli ARPI venivano riutilizzati, ma non ha influenzato la risposta a cabazitaxel. Gli eventi avversi di grado 3 o superiore sono risultati più frequenti con cabazitaxel, interessando il 65,4% dei pazienti rispetto al 30,2% nel gruppo ARPI.

La frazione basale di ctDNA è emersa come un potente biomarcatore prognostico, con livelli più elevati correlati a minore sopravvivenza libera da progressione e sopravvivenza globale. Sebbene lo stato del numero di copie del recettore degli androgeni plasmatico non abbia predetto gli esiti, alterazioni nel gene oncosoppressore PTEN sono state significativamente associate a una sopravvivenza ridotta (hazard ratio 1,9). Questi risultati sottolineano il potenziale ruolo del ctDNA e della profilazione genomica nella stratificazione del rischio e nell’orientamento di decisioni terapeutiche personalizzate.

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